Artigiani della pace (2)

Il capitano Ernest Gordon del reggimento scozzese, insieme ai suoi soldati, furono fatti prigionieri dai giapponesi durante la seconda guerra mondiale. Racconta che durante la prigionia furono trattati con cattiveria e inaudita violenza. Tutto era contrario ad ogni convenzione internazionale. Non esisteva né la giustizia, né l’umanità. Dovevano salutare i soldati giapponesi, curvandosi profondamente. Il lavoro massacrante sotto il sole ardente della Malesia e sotto le minacce dei mitra. Dovevano lavorare per la costruzione di una ferrovia militare destinata a congiungere la Birmania con l’India. Ogni traversina costò la vita di un uomo. Furono 12.400 gli uomini che morirono lungo i binari. Alla fine della guerra, racconta: “Non dimenticherò mai il giorno in cui un giovane sottufficiale, facendo l’ufficio di lettore, ci fece recitare il ‘Padre nostro’ e si trovò solo a dire ‘perdona a noi le nostre offese, come noi perdoniamo coloro che ci hanno offeso’. Dopo un istante di silenzio, il ragazzo ripeté la frase, e questa volta, centinaia di voci la ripeterono con lui, molti singhiozzando e piangendo”.
A proposito di questo tema, Pietro fece una domanda a Gesù: “Signore, quante volte, peccando il mio fratello contro di me, gli perdonerò io? Fino a sette volte?”. Perché questa domanda? I rabbini limitavano il perdono a tre offese e Pietro, credendo di applicare l’insegnamento di Gesù, l’estese a sette, il numero della perfezione. Gesù fece notare che non dobbiamo stancarci mai di perdonare. Sembra strano, ma siamo noi stessi che stabiliamo la misura del perdono di Dio. Lui ci firma un assegno in bianco, ma siamo noi che scriviamo la quantità di perdono che desideriamo, che coincide esattamente con la quantità di perdono che siamo disposti a offrire al nostro fratello. “Perdonate e vi sarà perdonato, con la misura con cui misurate, sarà misurato a voi in cambio”(Lc. 6:37-38). Abbiamo bisogno di capire che tutti falliamo molto e abbiamo tremendamente bisogno di perdono e riconoscere le nostre mancanze, affinché possiamo vivere nella grazia celeste. Bodelschwingh, uno scrittore cristiano, disse: “Niente è più grande dell’ammettere le proprie colpe, niente è più meschino del cercare scuse”.
Nel 1831, il duca d’Ossuna, viceré spagnolo a Napoli, si recò a visitare le galere in un giorno di festa, nel quale era tradizione liberare un prigioniero. Interrogati molti fra i detenuti, tutti si proclamarono innocenti. Uno solo confessò francamente le sue colpe. Il duca allora comandò: “Sia cacciato immediatamente questo tristo soggetto: può corrompere tutte le persone dabbene che gli stanno intorno”. E gli fece grazia. Questo episodio mi ricorda Simone, il fariseo onesto, che era convinto di non avere molto bisogno di perdono. Era stato guarito dalla sua malattia, ma non aveva ancora capito il perdono, pensava di non aver debiti verso il Signore. Non aveva sperimentato, assaporato la dolcezza delle proprie lacrime, non aveva sperimentato la gioia della grazia. Paolo diceva: “Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, dei quali io sono il primo”. E’ proprio questo l’atteggiamento che dobbiamo ricercare quando vogliamo entrare in comunione con Dio e condurre una vita in armonia con gli altri: avere l’umiltà di riconoscere il nostro stato, il nostro peccato, i nostri errori, chiedere perdono. Il Signore non si è accontentato di riconciliarci con il cielo, ma ci ha anche affidato la missione, il ministero di riconciliare e costruire ponti: “Per mezzo di Cristo ha dato a noi il ministero della riconciliazione” (II Cor. 5:18).
Giovanni Negro

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Autore dell'articolo: Stefania Tramutola